Antonio Tropiano, 47 anni, è un noto scultore di Santa Caterina dello Ionio (Catanzaro) che con la sua arte porta alto il nome della Calabria in Italia e all’estero. Dopo gli studi tra Bologna e Firenze, prosegue le sue ricerche nel campo della filologia medievale e rinascimentale. Collabora poi con una nota casa editrice come saggista della storia dell’arte e delle lettere umanistiche. Fin da ragazzo mostra una predilezione per la creazione plastica e per la naturale versatilità del legno, che ben si conciliano nella scultura. Nel 2015, su invito di Vittorio Sgarbi, partecipa alla Pro Biennale di Venezia. La sua arte racchiude un mondo di parole e di sensazioni, una vera e propria mutazione delle cose in altro. Per conoscere meglio l’artista e il profondo significato insito nelle sue creazioni, lo abbiamo incontrato. Ne è scaturita questa intervista.
Antonio, ha scelto di dedicarsi alla scultura dopo aver insegnato Filologia medievale. Com’è avvenuto questo passaggio?
«Per la verità non vi è stato alcun passaggio: nel senso che non vi è soluzione di continuità tra questi due momenti della mia vita. Ho continuato a scolpire, seppur in forma privata e molto contenuta, anche durante gli anni di docenza. Il mio bisogno di apprendere dalla materia la forma delle cose era così pressante a un certo punto che, mutate le circostanze, decisi di assecondare una sorte inevitabile dedicandomi compiutamente alla scultura. E poi il filologo e lo scultore lavorano sulla medesima materia: l’errore».
Ha iniziato molto piccolo ad amare questa forma d’arte grazie anche a suo nonno che era un ebanista.
«Mio nonno è morto prima che mia madre si sposasse, per cui non ho avuto modo di apprendere direttamente da lui quei segreti di bottega che mi avrebbero di sicuro facilitato il lavoro. Credo però di aver avvertito fin dalla prima volta che ho adoperato i suoi strumenti una sorta di deferenza, un insondabile bisogno di meritare quel privilegio confessandola alla fibra del legno. Sentivo di dover essere all’altezza di una idea, la sua».
Come nasce una scultura?
«È quello che mi chiedo tutte le volte che ne finisco una. In realtà credo di scolpire per urgenza: nel senso che cerco di non farmi travolgere da questo bisogno ineludibile di dire la propria, di fornire l’espressione di una propria individualità, che sembra connaturare questa stagione del mondo. Così mi ritrovo a osservare dei fenomeni per cui rintraccio una eziologia mettendo assieme aspetti e pezzi apparentemente dissimili e inconciliabili, ma che invece rivelano l’urgenza appunto di una nuova prospettiva».
Perché predilige il legno di tiglio per creare le sue opere?
«Non ho alcuna predilezione per una essenza o l’altra. Di certo il legno di tiglio o di noce (ma anche di ciliegio, acero, ebano etc) si prestano molto all’intaglio e ad accogliere spesso figure complesse e con texture di difficile esecuzione. Inoltre hanno un ordito di venature che non crea distorsione ottica quando li si osserva».
Fra le sue sculture noto “frammenti” di corpi e arti. Cosa rappresentano?
«Sono attratto dalla forza metamorfica del frammento, della scheggia. È lì secondo me che si realizza la mutazione di una cosa e della sua idea in altro; lì che la forma di un oggetto o di un corpo acquista la valenza del simbolo per tramite della propria materia».
È anche uno scrittore di saggi. Che collegamento c’è tra la scrittura e le sue opere scultoree?
«Tutti quelli che riesce a immaginare, e molti di più. Ho dedicato la mia vita alle parole e credo che nominare le cose sia la più grande invenzione dell’umanità. È dalle parole che parto quando do abbrivio a una scultura: negli interstizi del termine rintraccio infatti quella modulazione dei significati, quel tessuto connettivo concettuale che informa la figura scelta».
Quale, fra esse, esprime meglio delle altre il suo pensiero?
«Senza alcun dubbio quella che ancora non ho fatto».
Cos’è “Il torsolo di Adele”, la sua penultima, straordinaria, “creatura”?
«Adele Abbruzzese. Era così che si chiamava una giovane ciociara che ebbe in sorte di diventare una delle modelle preferite di Rodin. Questi infatti la ritrasse in molte sue opere; e in particolar modo la modellò in argilla (e quindi poi nel gesso) in una piccola scultura che oggi si trova nel suo museo a Parigi dal titolo “Il torso di Adele”. In assoluto una di quelle a cui sono più legato. In quel periodo il maestro stava lavorando alla “Porta dell’Inferno”, e si servì proprio di Adele per ritrarre la figura di Eva. Nel medesimo frangente Adele era rimasta incinta di un giovane garzone di bottega e nel suo stato interessante trovava non pochi disagi a posare nuda in pieno inverno nel freddo studio di Meudon.
Così fece quel che ogni madre farebbe spinta dalla premura per la propria creatura, scappò e non si fece più vedere. Il maestro cadde in uno stato di frustrazione perché la figura che stava realizzando oramai somigliava troppo ad Adele per ricominciare da capo. Si risolse di relegarla in un angolo e guardandola dopo settimane, lì negletta, si accorse che la porzione non terminata aveva la stessa forza espressiva di quella definita nella figura. Nasceva così il “non finito” di Rodin, una delle più grandi rivoluzioni della scultura di ogni tempo. Che per la verità era stata cagionata da Adele: ebbene, io ho voluto rendere omaggio a questo come a mille altri casi in cui le grandi intuizioni si sono prodotte in maniera fortuita e per il contributo di menti di cui la storia ha inteso non trattenere la memoria».
Che legame ha con la sua terra natale?
«Vi sono tornato dopo tanto tempo perché sentivo il bisogno di guardare le cose capovolte. La mia scultura necessita di una prospettiva di capovolgimento, di una inversione di sguardo e un luogo dove le cose mutano lentamente, perché il tempo che lo abita non ha fretta: quello è il posto giusto per scolpire».
Qual è il luogo in cui preferisce rifugiarsi per dare sfogo alla sua arte?
«Questo da cui le rispondo».
Ha esposto presso importanti gallerie e musei internazionali. Dove le piacerebbe arrivare?
«Al prossimo bicchiere di rosso».
(Foto: Antonio Tropiano, Profilo Facebook)